Ecco le pagine che avevo detto. Lo posto anche sul thread delle lodi, data l'attinenza.
Traggo da UN NIDO PER AMICO - Grazia Honegger Fresco - ed. la meridiana - 2001
[...] Le parole che preludono o accompagnano un'esperienza sono per il bambino, fin dalla nascita, una musica essenziale, preziosa, di comunicazione e di sonorità di cui lentamente si appropria.
[...] ogni parola che rivolgiamo al bambino può essere un segnale del nostro amore per lui o del nostro risentimento, del riconoscimento equilibrato che vogliamo dargli o del commento ironico o dispregiativo.
Ma c'è anche chi usa termini, in apparenza gentili, con un tono aggressivo ("Bravo, guarda che hai combinato!" e chi non sa parlare al bambino se non urlando.
Come genitori o come educatori non possiamo permetterci di ferire la sua sensibilità, offendendolo o mandandogli messaggi ambigui. Analizziamo e sorvegliamo il nostro modo di parlargli.
[...] La mentalità, che tutti noi abbiamo acquisito andando a scuola, porta a considerare il rapporto con il bambino come una continua caccia ai suoi sbagli: "Ecco qui, ti ho 'beccato'! Questo non lo sai fare... Che pasticcio hai combinato? Sei un incapace! Tuo fratello è più piccolo, ma fa meglio di te! Tuo padre quando aveva la tua età saltava il doppio di te" e così via. Vuoi per una mentalità punitiva e moralistica (di origine religiosa), vuoi per una ricorrente visione pessimistica così profondamente assimilata, fin dal primo anno i bambini sono sottoposti alla pressione del confronto, della punizione, del giudizio malevolo, ironico, e persino del disprezzo. Si cresce con la paura di non essere capaci, di non essere "mai" all'altezza, con un pesante pregiudizio su di sé: il bambino coglie rifiuto e non-amore nel continuo, svalutante, giudizio degli adulti. Non ne è sicuro, ma lo sente sulla sua pelle e l'esperienza è così sottile e dolorosa che nei casi più pesanti non se ne libera più: gli toglie il gusto di agire, di mettersi alla prova; lo rende insicuro, timoroso oppure aggressivo, scostante.
Maria Montessori rovescia questa atavica e distruttiva abitudine: "L'errore? E' un amico!".
E' l'esperienza che mi consente di controllare ciò che ho fatto e di migliorarmi, sempre che sia messo in condizione di vedere da me e che non sia l'altro - giudicante e autoritario - a dirmi ciò che non funziona. In effetti a ogni livello l'essere umano è in grado di verificare, di correggersi e di migliorare le sue prestazioni.
[...] La questione di fondo è se si ha o no fiducia nelle forze originarie e autoformative di ciuascun bambino, se ci preme che nulla distrugga in lui il piacere di fare, se vogliamo sostenere dall'esterno questa formidabile "autoscuola": io so correggermi sa solo.
[...] se tutte le volte che ha finito un puzzle, sono io a dirgli: "Bravo, è fatto bene", non tolgo forse valore alla constatazione che può fare per proprio conto? Per la conferma incoraggiante, basta un sorriso, un piccolo gesto, mentre la dipendenza dalla continua lode dell'adulto, contrariamente a quanto si pensa di solito, non favorisce la crescita!
Oggi i bambini vengono talmente coperti di lodi e di approvazioni perfino quando agiscono mediocremente, che rinunziano a impegnarsi se non hanno qualcuno che incoraggia, che "tifa" per loro. E così, a mano a mano che diminuisce la fiducia nelle proprie forze di sviluppo, cresce il bisogno di essere approvato di continuo e quindi, come già detto, la dipendenza.
"Bisogna sbagliare molte volte per imparare" mi ha detto una volta una saggia Elisa di quattro anni.
Poi, riferito in realtà ad un comportamento nel nido, ma secondo me buono anche per casa.
[...] Aggredire comporta il fatto di essere temporaneamente allontanato dagli altri, ma non di essere punito, umiliato.
L'aggressivo deve ricevere amore per calmare le proprie paure o i risentimenti: per questo un adulto dovrebbe restargli accanto, anche per poco, parlandogli prendendogli il visetto tra le mani con intenzione affettuosa. Amore come comprensione di una sofferenza, la stessa che riceve, sebbene in modo diverso, l'aggredito.
Non coccole o baci, ma parole quiete, senza colpevolizzarlo. Se diciamo "Mi dai un dispiacere a fare così", spostiamo il valore etico della legge che deve essere neutra e che recita "Questo non si può fare" e basta, senza altre finalità. Conviene isolare l'aggressore dagli altri per quattro, cinque minuti almeno, ma senza lasciarlo solo: un po' come uno stato di...quarantena che non deve mai diventare un'esposizione...alla gogna, ma solo un'inevitabile, temporanea separazione.