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“Alimentazione complementare a richiesta”, cosa vuol dire?

Autosvezzamento, ovvero “Alimentazione Complementare a Richiesta”… mi domando in quanti abbiano riflettuto su cosa voglia dire questa frase. Spesso in rete si legge di genitori che credono che i loro figli facciano autosvezzamento semplicemente perché non seguono le tabelle del pediatra o un calendario preciso di introduzione dei cibi, ma l’autosvezzamento è davvero tutto qui?

In questo articolo voglio esplorare il significato delle parole “complementare” e “a richiesta” in quanto se non siamo d’accordo sul significato di quello che diciamo sarà difficile capirsi.

alimentazione complementare a richiesta significato
Il video

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COMPLEMENTARE

“Alimentazione complementare” è un’espressione abbastanza usata: Google dà quasi 27.000 risultati che la riportano, e ultimamente sembra diventare sempre più “di moda” rispetto al vecchio termine “svezzamento”.
Ma serve un nuovo termine per descrivere quello che è (o sembra essere) un concetto ben assodato? Assolutamente sì, anzi, per essere chiari, la parola “svezzamento” non dovrebbe essere MAI utilizzata in NESSUN caso. Non tanto perché il termine “svezzamento” sottintende che dobbiamo perdere un “vizio”, ovvero smetterla con il latte, ma perché trasmette un messaggio ben preciso.

Pensiamo a come viene utilizzato normalmente – penso a frasi quali: “Quando inizi lo svezzamento?” o “Come hai fatto lo svezzamento?” o anche “io ho svezzato mio figlio così e così”, e quella che preferisco più di tutte, e non me la invento, “il pediatra mi ha svezzato mio figlio a tot mesi”, neanche il medico stesse a casa con te e desse LUI da mangiare a TUO figlio tutti i giorni! Insomma in tutti questi esempi è chiaro che c’è un’azione che si trasferisce dal genitore, o altro adulto, al bambino. La parte attiva è l’adulto; il bambino è passivo. Questo è il modo di pensare comune e quasi sicuramente se chiedete a un genitore si esprimerà in termini simili a questi. Nello “svezzamento” il genitore decide e il bambino subisce: “IO svezzo il bambino”.

Se invece parliamo di “alimentazione complementare” ecco che il discorso si ribalta.

“Alimentazione complementare” ci ricorda che è nella nostra natura prendere il latte fino a quando ci serve.
“Alimentazione complementare” ci dice che il latte rimane l’alimento principale, mentre il resto è solo un di più.
“Alimentazione complementare” ci insegna che il processo è graduale e non dettato da scadenze improrogabili.

L’idea che il latte non è un qualcosa che vada eliminato alla prima occasione, ma rimane il fondamento dell’alimentazione per i primi 12 mesi dalla nascita non è certamente nuova e da diversi anni viene data per scontata dalle organizzazioni internazionali, prima fra tutte l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Anche il Ministero della Salute italiano lo sa bene.
A giudicare da quello che si legge in rete, chi non sembra saperlo sono proprio alcuni (forse molti? Ma sicuramente troppi) pediatri che invece insistono a voler introdurre i solidi alla prima occasione: chi a 6, chi a 5, ma anche chi a tre mesi di età o anche meno, rigorosamente eliminando le poppate secondo un calendario prestabilito (prestabilito poi da chi?) per far posto a un tipo diverso di alimentazione come se il latte fosse una seccatura da togliersi di torno il prima possibile.

Se parliamo di “alimentazione complementare” sottolineiamo come la transizione dal latte ai solidi sia graduale e protratta nel tempo; se invece parliamo di “svezzamento” c’è il rischio di tornare al concetto di “sostituzione delle poppate”, quasi si considerasse il lattante alla stessa stregua di un alcolista al quale devi togliere il biberon (che, forse non a caso, in inglese si chiama “bottle” o “bottiglia”…) o, peggio ancora, il seno per non correre il rischio che ci rimanga attaccato tutta la vita, o gli vengano delle turbe (e anche questa l’ho sentita più volte).
L’essere umano come specie si nutre di latte all’inizio, e poi piano piano lo abbandona per passare ad altro; che ci piaccia o meno, è così che siamo stati programmati.

A RICHIESTA

Chi allatta al seno “a richiesta” avrà già chiaro il concetto, ma anche qui si può trovare difficoltà a trasferire quest’idea all’alimentazione.

L’AUTOsvezzamento, o alimentazione complementare A RICHIESTA, (notare l’enfasi: AUTO-svezzamento) ha come punto cardine il principio che è il bambino a segnalare il proprio interesse per il cibo. Questo interesse si dimostra quando il bambino prende ATTIVAMENTE parte ai pasti dei “grandi” arraffando – o chiedendo di farselo passare, chidendo di essere aiutato, ecc.; le possibilità sono infinite! – quello che gli capita sotto mano e che gli sembra interessante per poi portarlo alla bocca e farci … boh… qualcosa. La tavola viene condivisa da tutti, grandi e piccini. All’inizio i più piccini saranno solo spettatori, ma sicuramente immagazzineranno molte informazioni vedendo i genitori che “giocano” a questo strano gioco dove si mettono le cose in bocca per poi farle sparire. Dopo un po’ vorranno provare anche loro, magari dando l’impressione che vogliano mangiare, quando invece desiderano solo fare come fanno i genitori per poi passare rapidamente a fare altro. Tuttavia quando un bambino è DAVVERO pronto a mangiare lo farà senza stare a dare retta a niente e nessuno e lo farà secondo le SUE modalità.

Spesso si legge che durante lo “svezzamento” i genitori “propongono” determinati cibi con l’aspettativa che vengano “graditi” – notate le parole chiave: svezzamento, proporre e gradire. Tuttavia così facendo si mette al centro il genitore/pediatra/nonna/amica_di_turno e non il bambino e la sua tempistica. Non bisogna dimenticare che mangiare è un istinto che abbiamo tutti e il passaggio dal latte ai solidi è un traguardo che raggiungiamo tutti, indipendentemente da quello che vogliono/fanno i genitori o i parenti. Tenendo questo a mente, a che pro affannarsi a seguire una tempistica scelta arbitrariamente? Forse che se lasciati a loro stessi i bambini si lascerebbero morire di fame? Dopo tutto si accetta che un bambino allattato al seno sappia fare da sé da 0 fino a 6 mesi; si accetta inoltre che dai, diciamo, 12 mesi in su il bambino sia in grado di esprimere i propri desideri concernenti l’alimentazione. Chissà perché sembra molto più difficile credere che lo stesso istinto ci sia tra i 6 e i 12 mesi.

Capita anche spesso di leggere di genitori preoccupati che i figli non sembrano interessati a mangiare e, quasi altrettanto spesso, gli si consiglia semplicemente di aspettare tempi più favorevoli per “riprovare a proporre” (a quelli sfortunati viene consigliato di insistere/togliere la tetta/distrarli con giochi-giostrine-televisioni, ecc., ma per il momento soprassediamo su tutto ciò). Invece bisognerebbe consigliargli di continuare a mettere i figli a tavola e aspettare che siano LORO a dare dei segnali chiari che ti facciano capire che sono pronti, il che non è lo stesso di continuare a mettere la forchetta davanti alla loro bocca sperando che la aprano. Tra l’altro continuando a “proporre” si corre il rischio che si finisce per preoccuparsi perché il bambino “non mangia” o “non è interessato”, innescando potenzialmente tutti quei meccanismi conflittuali genitore-bambino: il genitore teme che il bambino sia non “performante” mentre, al tempo stesso, il bambino “apprezza” tutte le attenzioni che gli vengono rivolte.

Sovente nei forum si legge che “grazie all’autosvezzamento” alcuni bambini mangiano voracemente tutto con passione. È chiaro che i genitori dei figli mangioni sono orgogliosi dei progressi fatti dal figlio tra lo sbigottimento generale di amici e parenti, ma allora cosa dobbiamo dire dei bambini che invece sembrano non voler mangiare? L’’autosvezzamento non funziona con loro? Certo che sì. Di nuovo basta ricordare che l’alimentazione è A RICHIESTA. Il merito dell’autosvezzamento non è quello di far mangiare tutto e in grandi quantità in breve tempo, ma di permettere al bambino di sperimentare secondo i suoi tempi e seguendo le sue inclinazioni.

Con un’alimentazione rigorosamente a richiesta (e senza preoccuparsi più di tanto di cosa, almeno a breve e brevissimo termine), c’è una diminuzione drastica e pressoché immediata del livello d’ansia nei genitori i quali, non avendo aspettative nei confronti del comportamento del figlio e nella certezza che, come tutti prima di lui, quando sarà pronto mangerà, si rilasseranno e così facendo faranno rilassare i figli stessi, innescando una specie di feedback positivo dal quale tutti ricaveranno beneficio. I bambini che mangiano tanto forse avrebbero mangiato tanto comunque, così come quelli che mangiano poco, indipendentemente dal percorso prescelto… Il quanto mangia non è fondamentale (e poi chi definisce cos’è “poco” e cosa “tanto?); l’importante è stare tranquilli, tanto sappiano che c’è il latte.

Mangiare è come camminare o parlare… prima o poi TUTTI i bambini raggiungono questi traguardi. C’è chi cammina a 9 mesi e chi comincia a 18, chi parla a 12 mesi e chi a 24 mette in croce sì e no un paio di sillabe, tuttavia basta aspettare un pochino e tutti impareranno a parlare e camminare, e quello che è avvenuto prima verrà dimenticato. Se un bambino può imparare a camminare/parlare a richiesta, ovvero seguendo la propria tabella biologica e senza dover sottostare ai desideri dei genitori, non vedo perché la stessa cosa non dovrebbe valere per l’alimentazione!

Ciao e alla prossima

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